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Da Torino a Bratislava inseguendo l’obiettivo di conquistare la Coppa Davis che manca all’Italia dal lontano 1976. “Per me le responsabilità sono un privilegio”, sottolinea Filippo
di Angelo Mancuso, da Bratislava | foto Giampiero Sposito | 02 marzo 2022
Una vita dedicata al tennis quella di Filippo Volandri, 40 anni compiuti lo scorso settembre: dai primi passi al Tennis Club Livorno fino alla panchina azzurra. Comincia a Bratislava, lungo il fiume Danubio in Slovacchia, il secondo anno da capitano di Coppa Davis. Il tennis italiano sta vivendo un momento magico, forse il migliore della sua storia. Le cose sono cambiate grazie ad alcune riforme strutturali: più tornei, decentralizzazione della crescita dei giovani talenti. E qualche campione ad accendere la fantasia.
Volandri con il suo entusiasmo, la sua professionalità, la sua cura maniacale dei particolari che sono poi quelli che fanno la differenza, è uno dei simboli di questo rinascimento. I dettagli fanno la perfezione e la perfezione non è un dettaglio, diceva un certo Leonardo da Vinci. L’ultimo e sin qui unico trionfo in Coppa Davis risale al 1976, ma ora possiamo di nuovo pensare in grande.
Davis Cup: il capitano azzurro Filippo Volandri con Lorenzo Sonego (foto Sposito)
Davis Cup: Lorenzo Musetti si allena sotto lo sguardo di capitan Volandri (foto Sposito)
Intanto mettiamo un punto sul 2021 chiuso a Torino lo scorso novembre. Le nette vittorie con Usa e Colombia, poi la sconfitta con la Croazia finalista della passata edizione. Rimpianti?
“Per come siamo partiti no, per le emergenze che abbiamo dovuto gestire a tutti livelli in quei nove giorni di Torino no. Ovvio che una volta che vinci vorresti continuare a vincere. Arrivare ai quarti è stato sicuramente un ottimo risultato considerato il fatto che non c’era Matteo Berrettini per infortunio. Tutti avremmo voluto giocare la semifinale a Madrid, però come primo anno l’obiettivo primario era dare un senso di appartenenza, dare un senso di gruppo e credo che questo si sia visto. Quello che mi piace di tutti i ragazzi è il mettersi a disposizione di un gruppo, cosa che non è scontata per un giocatore di tennis”.
Da giocatore a capitano: le differenze?
“Di sicuro la responsabilità. E’ vero che quando vai in campo in Coppa Davis giochi per la tua nazione, per la squadra. Passando dall’altra parte hai il compito di far stare i giocatori a proprio agio. E credo sia una responsabilità maggiore. E’ ovvio che per me è un onore essere capitano di Coppa Davis in un’era decisamente diversa da quando giocavo io. Credo e spero di essere un capitano moderno. C’è una struttura, ho studiato, sto apprendendo anche grazie ai giocatori stessi che porto in Davis e che ci stanno dando una grandissima mano. Non sono da solo, il fatto di avere Umberto Rianna, di avere preparatori mentali alle mie spalle mi rassicura sul percorso che sto facendo con i ragazzi”.
Da Torino a Bratislava con un gruppo sempre più compatto e allargato…
“Questo è quello che mi rende più orgoglioso essendo al di là del ruolo di capitano Coppa Davis il direttore tecnico della federazione da ormai sei anni. Ciò su cui abbiamo basato la nostra crescita è proprio la relazione con gli allenatori, con i coach dei ragazzi. Probabilmente prima ci si focalizzava molto sui giocatori. Continuiamo a farlo, ma focalizzandoci anche sugli allenatori per far crescere un movimento. Adesso, dopo un po’ di anni, si vede un sistema. Gli allenatori si parlano tra di loro, noi abbiamo un ottimo rapporto con i coach stessi perché mi piace chiamarci dei potenziatori dei team. Siamo dei consulenti in primis, diventiamo dei collaboratori poi. Grazie a una federazione come quella che abbiamo riusciamo a dare dei servizi altrimenti questi team non potrebbero mai avere”.
Un capitano giovane alla guida di un gruppo giovane…
“Sicuramente posso più facilmente entrare nella testa dei giocatori proprio perché ci sono passato non tanto tempo fa, ho fatto quel percorso. Mi facilita il fatto che alcuni di loro li ho avuti come compagni di avventura. Però il passo dall’altra parte è molto più grande, credo di aver studiato tanto perché in questo lavoro non si smette mai di imparare. Tanto più in un tennis che è molto diverso da quello che giocavo io. Noi eravamo abituati ad avere un allenatore che ti faceva un po’ da tutto. Da coach, da psicologo, da amico, a volte si sostituiva al preparatore atletico. Adesso il giocatore moderno ha uno staff dove ognuno ha la propria competenza, la propria parte. E’ questo è ciò che la federazione cerca di mettere al servizio dei ragazzi”
Davis Cup: Stefano Coboolli con Filippo Volandri e Flavio Cobolli sparring partner degli azzurri (foto Sposito)
Quanto ha inciso in negativo la pandemia sul lavoro da capitano?
Per certi versi no, mi ha dato tempo di potermi preparare meglio. Per altri sì, perché viaggiare o anche assistere solo ai tornei è più complicato a causa delle restrizioni sanitarie che ci sono state, almeno fino agli ultimi Australian Open. Tutto ciò ha impedito di dare continuità dal vivo. Soprattutto all’inizio per me è stato fondamentale andare a casa dei ragazzi, parlare con i loro allenatori, scoprire la loro quotidianità. Esperienza che mi aiutano molto per riportarle all’interno della Coppa Davis. Io nelle due, tre, quattro settimane all’anno che ho con i ragazzi il contatto diretto non devo stravolgere la loro routine. Per questo abbiamo aperto agli allenatori e ai loro team con l’obiettivo di dare continuità al loro lavoro”.
A Bratislava è attesa tanta stampa italiana: l’asticella si alza sempre di più…
“Ci dà sicuramente grossi stimoli, ci fa capire che siamo sulla strada giusta. Io faccio sempre l’esempio del bar: il fatto di non sentir parlare solo di quella che è stata la partita di calcio della domenica, ma anche di tennis, di Berrettini, di Sinner, dei successi dei nostri giocatori, è la prova che siamo diventati un movimento importante. Ovvio che questo ti dà delle responsabilità, però per me le responsabilità sono un privilegio. Gestire una squadra importante, forte, mi rende molto fiducioso. Anche per l’attaccamento che i ragazzi dimostrano quando vestono la maglia azzurra in Davis”.