
Chiudi
Talenti e serie A: Labrocca racconta la sua lunga ed entusiasmante esperienza in Trentino, tra Rovereto, Aro e Ata Battisti
di Luca Avancini | 03 gennaio 2020
Sono passati venticinque anni, una vita o quasi, ma i segni del tempo si intravedono appena. Max Labrocca non è cambiato, ha lo stesso sguardo sul mondo appassionato e insieme disincantato che aveva quando nell’estate di un lontano 1994 dalla Campania si era trasferito in Trentino. L’orizzonte geografico si è ristretto, l’aria salmastra e la luminosità del golfo della sua Salerno hanno lasciato il posto ai profili severi e incalzanti delle montagne, l’orizzonte professionale si è allargato sensibilmente, e il suo continua a essere un emozionante viaggio verso lidi sportivi e tennistici sempre nuovi e stimolanti. Se la Scuola dell’Ata è stabilmente tra le prime nelle graduatorie nazionali lo deve sicuramente a questo maestro dalla doppia anima, sincera quanto passionale, orgogliosa quanto determinata. Un osservatore lucido e critico, che non ha mai perso il gusto per la battuta. L’ironia è la lente con cui guardare le cose, che spesso sa essere affilata e tagliente, mai banale e accomodante.
CONTAMINAZIONI
Madre friulana, padre pugliese, un fratello nato a Roma, un’infanzia trascorsa tra le strade di Salerno, c'è un po’ di tutto nell’uomo Max Labrocca, e queste contaminazioni sono sempre state una ricchezza, un’apertura sul mondo. “Dopo tanti anni ormai mi sento trentino a tutti gli effetti - fa lui - Uno dei miei due figli, Andrea, che adesso collabora con me, è nato proprio qui, a Rovereto.” La prima tappa del suo viaggio di sola andata in Trentino. “Se sono arrivato qui lo devo a Graziano Risi che allora dirigeva la Scuola della Baldresca - racconta - io seguivo alcuni ragazzi entrati nel giro della nazionale, e tra questi c’era anche Roberta Borrelli, coetanea di Chiara Dal Bon, allieva di Graziano. Durante un torneo venne fuori l’idea di far giocare insieme le ragazze alla Polsa, dove lui lavorava d’estate. E così abbiamo cominciato a collaborare, Graziano mi ha proposto di affiancarlo a Rovereto, apprezzava il mio modo di allenare e aveva bisogno di un maestro perché era impegnato con la Federazione. Il mio circolo non se la passava troppo bene e così ho accettato la proposta. Devo essere onesto, Salerno iniziava a starmi un po’ stretta, ero convinto di poter fare di più in un contesto diverso.” Non fu amore a prima vista però: “Dopo sei mesi stavo per andarmene, Troppo freddo “io qui non ci resisto”, mi dissi. Poi arrivò la mia famiglia e le cose pian piano migliorarono. Adesso non mi muoverei più, ho trovato l’ambiente ideale per coltivare anche la mia passione per la moto. Il Trentino è il top, in quanto a servizi e qualità della vita. E poi all’Ata ho tutto, dal punto di vista professionale non mi manca nulla.”
ISTINTO
Da giocatore è stato un buon B3, l’equivalente di un 2.4 o 2.5 di oggi, eppure Max non pareva un predestinato della racchetta. “A nove anni arrivai secondo ai campionati italiani di nuoto, e gareggiavo con quelli di dodici. Ero una promessa, poi con i compagni mi presi un’epatite virale, perché la piscina dove ci allenavamo non era troppo pulita. Mio padre si arrabbiò e non mi fece più andare, imponendomi di scegliere un altro sport. Puntai sul tennis perché ci giocava mio fratello Marco. Lui sì che era un vero talento, è stato un B1 molto forte, finalista ai campionati italiani juniores. Fece anche una finale in un torneo da 75mila dollari, e ricordo che al Bonfiglio perso al terzo set con un certo Mats Wilander. Pure lui adesso fa il maestro a Salerno, ma non ne vuol sapere di allenare gli agonisti. Si è stufato. Io come giocatore avevo sicuramente un buon braccio, ma ero poco paziente, giocavo sulla terra come sul veloce, cercando di chiudere subito lo scambio e in campo non ero tranquillo. Nessuno però mi aveva mai insegnato nulla, il mio era un tennis di puro istinto. Forse è per questo che da maestro sono diventato così metodico, ossessivo nella cura dei particolari. E sicuramente più sereno e obiettivo nel valutare le cose.”
TAPPE
“Quando sono arrivato a Rovereto ho cercato subito di cambiare metodologia di lavoro. Nessuno aveva mai pensato di allenarsi d’estate, le scuole tennis si fermavano a maggio e riprendevano a ottobre. Ho preso i ragazzi e ho cominciato a farli giocare anche nei mesi estivi, arrangiandomi con i campi e l’organizzazione. I i risultati ci hanno dato ragione, perché presto abbiamo vinto tutto. C’erano tanti giovani bravi e promettenti, penso a un Devid Sterni che è stato semifinalista ai campionati europei under 12, ma non solo, con la squadra under 12 siamo arrivati in finale ai campionati nazionali. Per una regione come il Trentino sono stati i primi risultati significativi a livello giovanile. Insieme al Progetto Trentino del compianto Berloffa, diedero una spinta importante per far crescere tutto il movimento.” Chiusa l’esperienza di Rovereto si apre la breve parentesi di Arco, un anno e mezzo, tra il 2003 e il 2005. “Ad Arco le cose funzionarono anche troppo bene, gli spazi però erano pochi e mi toccava lavorare anche quindici ore al giorno. Impossibile reggere certi ritmi, inoltre non riuscivo più a seguire l’agonistica. Ho lasciato a malincuore, mi ero fatto tanti amici lì.” Nell’estate del 2005 arriva all’Ata, giusto in tempo per seguire l’avventura del circolo cittadino nella massima serie nazionale. “L’Ata mi aveva fatto già un’offerta dopo Rovereto, ma non era ancora il momento giusto per accettare. Lo feci quando ero sicuro che saremmo potuti ripartire da zero, alle mie condizioni, come abbiamo poi fatto insieme a Luca Volpe.”
CAPITANO
E a ottobre si ritrova catapultato sulla panchina della serie A, l’Ata è al debutto e schiera Andrea Stoppini, Uros Vico, Matteo Gotti e Radim Zitko. Max Labrocca è il capitano non giocatore. “Non ho mai avuto difficoltà a calarmi nella parte, qualcuno si è pure stupito, perché pareva lo facessi da anni. E’ stata un’esperienza molto formativa, ho imparato tantissimo, anche solo guardando come si muovevano i professionisti, come si comportavano gli altri capitani, cosa dicevano quando intervenivano e cono quale tono. In questo lavoro saper osservare è fondamentale. Il miglior complimento l’ho ricevuto tre anni fa da Andrej Martin, quando vincemmo lo spareggio play-off di A2 al Vomero. Perdeva 1-3 al terzo il match decisivo, ma riuscì a spuntarla 6-4. Alla fine mi disse “Senza di te non ce l’avrei mai fatta.” La serie A è stato il teatro dei sogni e delle illusioni, uno sfondo carico di emozioni e di gioie, mescolate a qualche inevitabile delusione. Un pezzo di storia personale, nel quale va infilato anche un mezzo scudetto. “Le soddisfazioni sono state tante, e il ricordo più bello resta proprio la finale con Capri nel 2006: avevamo soltanto quattro giocatori e nemmeno una riserva, ma nel gruppo si creò un feeling speciale, tutti riuscirono a dare il massimo e probabilmente qualcosa di più per raggiungere quel risultato straordinario. Perdemmo sì, ma solo al doppio di spareggio e contro una coppia, Galimberti-Starace, che aveva giocato in Coppa Davis.” L’ultima stagione è stata segnata da una nuova dolorosa retrocessione nello spareggio con Massa Lombarda. “La salvezza avrebbe avuto lo stesso valore di uno scudetto. Eravamo tutti pienamente consapevoli delle difficoltà che avremmo trovato in un girone complicato e di alto livello. Purtroppo nella fase eliminatoria ci sono mancati i professionisti, non abbiamo vinto un solo match con i nostri numeri uno e due. Conforta il fatto che i ragazzi abbiano fatto il loro dovere sino in fondo, Davide Ferrarolli ha portato ben cinque punti in singolare, lui e Mattia Bernardi inoltre sono stati decisivi nella sfida vinta con il Parioli. Sono segnali incoraggianti per il futuro. Con un innesto di spessore si può tornare in alto.”
MENTALITA’
Bernardi e Ferrarolli sono le punte di diamante di un vivaio che forse non è mai stato così florido come in questo momento. “La finale raggiunta dai due nell’ultimo torneo Open è stato un risultato eclatante. Per molti è sembrato normale, ma vi assicuro che non è così. Sia Mattia che Davide hanno compiuto una crescita notevole, e sono convinto che abbiano i mezzi tecnici per puntare molto in alto. Avrei scommesso pure su Stefano D’Agostino, ma lui ha fatto altre scelte. Le rispetto, anche se mi dispiace. Credo che il livello adesso sia molto più competitivo che in passato anche qui da noi, basta guardare i risultati individuali e a squadre. Abbiamo sempre qualcuno che arriva in alto ai campionati giovanili individuali e qualche formazione under che si piazza tra le prime alle fasi nazionali. All’Ata stiamo cercando di cambiare la mentalità, di insegnare ai ragazzi che non si gioca per vincere, ma per migliorare. Che non bisogna limitarsi a guardare il risultato immediato, ma concentrarsi su quello più lontano. Certo serve coraggio, devi proseguire sulla stessa strada anche se perdi qualche partita, non scoraggiarti di fronte alle prime difficoltà. Se cambi il tuo sistema di gioco in funzione del punto, magari vinci qualche partita in più, ma di sicuro non cresci, anzi, spesso finisci per regredire. Diventa fondamentale anche lavorare sulla tattica, le idee e i concetti di gioco alle volte contano più delle braccia e delle gambe; oggi tanti giocano bene a tennis, ma non tutti sanno fare le scelte giuste nei momenti giusti. E sono quei momenti che fanno la differenza. A un certo livello un match è deciso da una manciata di punti, cinque o sei al massimo.” A proposito, qualcuno insinua che i ragazzi dell’Ata vincono tanto nelle categorie giovanili perché giocano e si allenano molto più dei coetanei. Persino troppo per l’età. “E’ la cosa più semplice da dire quando non hai altri argomenti. Pochi dicono che giocano semplicemente meglio. Ricevo più complimenti fuori regione che in Trentino, ma so che le squadre che vincono danno sempre un po’ fastidio. Il segreto è uno solo: la cura dei dettagli tecnici, che sono spesso i più trascurati. Qui da settembre a novembre si lavora solo ed esclusivamente sulla meccanica dei colpi, e non si fanno gare.”
FIGLIO
Da tempo Labrocca ha al suo fianco Marlon Sterni. “E’ il mio terzo figlio, è con me da quando aveva sette anni, mi ha seguito ad Arco e poi all’Ata. Un ragazzo d’oro. Pensare che voleva aiutare il padre nella panetteria di famiglia, lo ho convinto a continuare questa professione, ed è diventato un bravissimo maestro, umile e preparato. Ha un solo difetto, alle volte è troppo buono. In questo mestiere, quando serve, bisogna saper rispondere a tono. Così lascia che sia io a fare la parte del cattivo. Ma di lui mi fido a occhi chiusi, tra noi non serve nemmeno parlare, ci intendiamo al volo.”
LATO B
“Il lato peggiore di questo lavoro è sicuramente la mancanza di gratitudine. Ci sono giocatori che cambiano circolo e non vengono nemmeno a salutarti. Cancellano tutto da un giorno all’altro. Ma nel complesso sono più le gioie dei dolori. E io sono contento di tutto quello che ho fatto finora. Rimpianti non ne ho.” E allora buon compleanno maestro.